Reclutamento formigoniano. Scuola lombarda in salsa padana

31.01.2013 15:52

Reclutamento formigoniano
Scuola lombarda in salsa padana

Da Articolo 33 n.1/2/2012

Pino Patroncini

 

Nei giorni scorsi la giunta regionale lombarda, auspice il Governatore Formigoni, ha licenziato un progetto di legge regionale che, forte di una interpretazione forzata ed estensiva degli articoli 116 e 117 contenuti nel nuovo Titolo Quinto della Costituzione ma comunque assai discutibile in base ai principi contenuti agli art. 51 e 97, prevede “di riffa o di raffa” l’assunzione diretta degli insegnanti da parte delle scuole.
 

Una scuola antisociale e anticostituzionale

Vi si parla anche di cose più gravi: di fatto l’insegnante assunto dovrebbe essere d’accordo col profilo didattico della scuola, secondo una impostazione di cui non si comprendono bene i confini e che quindi rischia, anzi promette, di saltare facilmente la frontiera che separa didattica e pedagogia dall’ideologia politica o religiosa professata. Si tratta quindi di una misura che prefigura scuole separate a seconda dell’orientamento ideologico, vecchio cavallo di battaglia di Comunione e Liberazione, di cui, non dimentichiamolo, Formigoni fa parte.
Ma non solo: prefigura, in aperta violazione costituzionale, la possibilità di discriminare in fase di assunzione in base all’orientamento politico religioso e quant’altro dei candidati. Ed infine, nella migliore delle ipotesi, cancella ogni possibilità di confronto nel modo di vedere la scuola, senza considerare le conseguenze che una scuola in tal modo segregata avrà sul- la compattezza del tessuto sociale e sulla possibilità di mescolare i diversi livelli culturali, in modo che il più alto sia di stimolo al più basso.
Un disastro insomma, per la democrazia e per la didattica!
 

Una scuola impraticabile

Tuttavia non è su questo pur importante prioritario e centrale aspetto che voglio soffermarmi, ma su quello più prosaico della praticabilità e delle conseguenze che comporta questa scelta, su cui naturalmente Formigoni spera di fungere da battistrada per tutta la penisola.
È pur vero che la legge contiene un imponderabile comma capestro che delega alla giunta la definizione delle regole per queste assunzioni, ma è almeno sperabile che la chiamata diretta punti a darsi una parvenza di obiettività, non fosse altro perché vige la norma costituzionale che gli incarichi pubblici debbano essere dati per concorso, norma inderogabile almeno fino a che le scuole restano pubbliche o le leggi, stavolta nazionali, non decidano il contrario. Dunque le scuole dovranno attrezzarsi a fare i concorsi interni o, nella peggiore delle ipotesi, dei colloqui-intervista con gli aspiranti, per poi scegliere.
Orbene, si dà il caso che in Italia il mestiere di insegnante sia un mestiere ancora ambito, nonostante i bassi stipendi e la perdita progressiva di quelli che una volta erano considerati i privilegi della categoria (vacanze lunghe, orari ridotti, prepensionamenti e pensioni migliori). Dunque un mestiere a cui aspirano centinaia di  migliaia di persone: non a caso vi sono 200.000 aspiranti in lista d’attesa nelle graduatorie ad esaurimento. E, come se non bastasse, decine di migliaia di precari non abilitati e di neolaureati bussano alle porte, come dimostra l’acceso interesse sollevato dalla tribolata vicenda dei Tfa.
La crisi, poi, nonostante tutti gli scongiuri anti-noia del monotono Monti e anti-mammismo di mamma Fornero, ha rinfocolato l’interesse per il posto di insegnante, non foss’altro, appunto, perché trattasi del tanto deprecato posto fisso, così retrò per chi di posti fissi ne ha anche due o tre, ma così appetibile per chi altrove avrebbe solo la prospettiva del cocopro o della partita Iva.
Aggiungo che quando un po’ di anni fa la provincia autonoma di Bolzano, essa sì in regola perché forte delle prerogative dello statuto speciale di autonomia, abbozzò l’idea di fare un concorso fuori dai tempi di quelli nazionali dovette rinunciare pena il rischio che sull’autostrada del Brennero si formassero code fino a Bologna di aspiranti provenienti da tutta Italia.
Insomma ve le vedete le segreterie delle scuole che smistano decine di migliaia di domande in ogni scuola? Ve le vedete le scuole che organizzano diecimila colloqui o concorsi ogni anno o ogni due-tre anni oppure ad ogni bisogna? Si è già visto come è finita con le supplenze, che una volta erano gestite dai provveditorati, e adesso pure ma sotto la finzione di una scuola che coordina le altre. Tanto varrebbe tenere i concorsi provinciali e regionali e a cadenza nazionale, come è stato finora!
 

Che cosa succede in Europa

Ma, si dice, in tutta l’Europa si fa così. Non è vero! Questa è un’altra di quelle panzane che la stampa ci rimbalza senza nessuna verifica.
È vero invece che il sistema della chiamata dalle scuole funziona o in paesi dove c’è penuria di insegnanti o in paesi molto piccoli con pochi milioni di abitanti (e quindi anche poche scuole e pochi insegnanti).
Proprio in questi giorni Euridyce, l’agenzia europea sulla scuola, ci ha mandato un aggiornamento della situazione (cfr “Key data on education in Europe 2012”, di cui è reperibile anche la versione italiana della sintesi). Ebbene i  paesi dell’Unione in cui le scuole hanno pieni poteri nella selezione diretta degli insegnanti sono Bulgaria, Cekia, Estonia, Lettonia, Li- tuania, Polonia, Slovacchia, Svezia, Irlanda, Belgio (ma solo nella secondaria), Regno Unito (tranne la Scozia), e in parte, su delega dell’autorità competente, i Paesi Bassi.
Solo 12 Paesi su 27, per un terzo circa della popolazione della UE: quindi una minoranza. Altro che tutta l’Europa! Di questi Regno Unito, Belgio e Paesi Bassi hanno seri problemi di mancanza di insegnanti: per esempio, la fonte è sempre Euridyce, nel Belgio francofono manca il 45% degli insegnanti di matematica, il 38% di quelli di scienze e quasi il 25% di quelli di lingua, nel Belgio fiammingo manca il 25% di quelli di matematica e il 15% di quelli di scienze, nel Regno Unito manca il 27% di quelli di matematica e il 15% di scienze, nei Paesi Bassi manca il 30% di quelli di matematica e scienze e il 20% di quelli di lingua. In questi paesi al di fuori delle scuole di élite, per lo più private, l’insegnamento non è un mestiere ambito (a prescindere dalle condizioni economiche, comunque migliori delle nostre), spesso è una professione di passaggio in attesa di una occupazione migliore e si fa perciò anche molto ricorso a personale proveniente dalle ex colonie o comunque immigrato. Nei Paesi Bassi alcuni anni fa si è addirittura arrivati a... ridurre la settimana scolastica a quattro giorni per fare fronte alla penuria di insegnanti. Nel Regno Unito, dove ci si può iscrivere ad appositi siti via internet come da noi ci si iscrive in graduatoria o a un ufficio di collocamento, non sono rari i colloqui telefonici con aspiranti indiani o pakistani (altro che selezione accurata!) e costituisce una eccezione un insegnante di scuola statale oltre i 40 anni di età.
Si tratta dunque di paesi dove la richiesta di lavoro nella scuola non è forte e la domanda e l’offerta possono essere gestite come negli altri settori lavorativi.
Dei restanti paesi i quali non hanno problemi di penuria di insegnanti, se si esclude la Polonia, unica nazione di una certa consistenza, gli altri otto tutti compresi non arrivano a mettere insieme 44 milioni di abitanti. Si va dal più piccolo, l’Estonia, massimo 15.000 insegnanti, stando alle medie italiane, alla Svezia, massimo 100.000 insegnanti, con la stessa logica. Essi sono più assimilabili per popolazione scolastica ad una nostra regione e quindi poco comparabili e poco compatibili col caso italiano.  
A meno che Formigoni non abbia in mente di alzare il filo spinato sulle sponde del Po, del Ticino e del Mincio, che sarebbe un’altra bella contraddizione con le regole della nostra Costituzione e con la natura unitaria, appena celebrata, della nostra Repubblica.